robdownjunface

(post di Lorenzo Gasparrini)

Quello che segue è sostanzialmente un “deconstructing” del libro di Luisa Muraro. Di tutto il libro. Se non avete la pazienza di seguirlo, le mie sole opinioni conclusive sono sotto, e potete evitare la rilettura del testo. Ringrazio Sara Pollice per lo spazio e per le chiacchiere che hanno contribuito a rendere tutto ciò più leggibile anche a me stesso.

Non vorrei che le premesse fossero scambiate per pregiudizi, anche perché quello che sto per scrivere inerisce molto al senso delle parole. Quindi comincio subito a parlare de L’anima del corpo a partire da come si presenta: dalla copertina.

Vestita di una leggera sottoveste rétro, una donna incinta mostra la fede all’anulare (destro) e tiene con le due mani il grembo sul quale è stampato un codice a barre. Per la copertina di una filosofa che fa della riflessione sull’ordine simbolico uno dei propri cardini, non c’è male: la copertina è una dichiarazione d’intenti. Qui si parla di commercio di grembi gravidi, e il sottotitolo è chiaro: Contro l’utero in affitto. Che sia una denominazione volutamente scorretta e populista lo hanno detto già molti e molte più titolati e titolate di me, non serve ripeterlo: se una grande filosofa femminista la mette in copertina corredata da un’immagine che sostanzia quella scorrettezza, sa quello che fa. Come sa che il titolo ripropone un vecchio dualismo anch’esso superato e ancora superabile, anche perché è su questi dualismi che il patriarcato (attenzione spoiler: secondo Muraro il patriarcato è finito) ha fondato il suo potere. Di nuovo: se ha scelto quel titolo, pur con tutte le contrattazioni che deve subire un titolo per essere scelto tra chi lo ha pensato e chi lo stamperà, evidentemente sa bene cosa vuol dire. Non si potrà mai accusare Muraro di non sapere le premesse o le conseguenze filosofiche di quello che va dicendo.

L’Avvertenza ci dice che lei, «di preferenza» si confronta con le donne, e che agli schieramenti preferisce «la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti e, se necessario, il conflitto». Me ne ricorderò spesso, durante la lettura, di queste preferenze.

Il libro comincia con un «non so». Una negazione e un verbo in prima persona, e sono tutto un programma: il libro contiene ciò che Muraro dice in prima persona, e ciò che non vuole, non desidera, non crede, non auspica.

Mi domando – e dopo due letture me lo sto ancora domandando – cos’è questo libro. Non è un saggio, non ci sono note o bibliografie. Non è un pamphlet, non ci sono bersagli polemici precisi. Non è una lettera o un appello, non è indirizzato direttamente a nessuno. Non è satira né presa di posizione, perché abbiamo già letto che l’autrice non piacciono gli schieramenti. Forse, se ho inteso bene alcune parole scritte più avanti, è la sua «verità soggettiva». Ancora spero, a pagina nove, che questa sia ben corroborata con «la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti», altrimenti leggerò un monologo autofondante come in filosofia se ne sono già letti parecchi. Ma credo che Muraro sappia quello che fa. Certo che definire, e non esplicitamente, la GPA come «l’idea di commissionare la confezione di una creaturina umana con un regolare contratto commerciale» è abbastanza chiara come presa di posizione – e già mi dice come e quanto siano state fatte «la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti». La questione del nome da dare a questo fenomeno sul quale Muraro invita a riflettere ancora («diamoci il tempo di pensare!») dovrebbe essere fatta appunto di «lettura dell’esperienza» e «ricerca di argomenti». Se la scelta è questa, ho il sospetto che non siano state fatte molto approfonditamente. E sono solo, come detto, a pagina nove.

A pagina dieci si profila un complotto non meglio chiarito per «uniformare il linguaggio e il pensiero», una espressione che trovata su un libro contro la GPA di una editrice cattolica mi ricorda il linguaggio di alcuni pessimi personaggi politici che hanno adottato punti di vista cattolici per i propri interessi, come Adinolfi o Miriano. L’impressione mi si rinforza quando, con una certa difficoltà, mi rendo conto che Muraro scrive che la parola gender «doveva sostituire […] la parola sesso».  Anche questa distorta lettura di Judith Butler viene dalla stessa fuffologia cattolica. Non credo possibile che una femminista storica prenda queste cantonate, la sua è una precisa scelta, come lo è il «povere maestre! Come faranno a insegnare l’italiano» tanto appositamente ipocrita che voglio dimenticarmelo per tutto il weekend. Ok, allora dico “fine settimana”.

Devo evitare di ridere, perché a pagina undici tra i precedenti «della riproduzione umana per interposta persona», altra espressione scorretta adoperata volutamente (preferisco leggere una voluta ipocrisia piuttosto che una inconsapevole ignoranza, perché io continuo ad avere rispetto per chi fa filosofia), vengono messi la schiavitù («le donne obbligate a procreare per conto dei padroni»), la prostituzione e non meglio precisate «nuove forme di vita familiare». Una presa di posizione molto forte e molto discutibile – anzi, già discussa da tempo da diversi femminismi (Nussbaum, Liberto, Kempadoo) – che invece viene messa lì senza riferimenti o altre informazioni, sempre da quella prima persona che sta parlando. La quale a pagina dodici afferma una falsità: «la balia […] il latte, sgorga da lei in risposta, una risposta spontanea del suo corpo, al bisogno della creatura a lei affidata». A me risulta che la balia allatta perché anche lei ha appena partorito; detto così sembrerebbe che qualunque donna può essere balia in qualsiasi momento. Perché Muraro prende una cantonata del genere? Torneremo a parlare della balia, e forse si chiarirà anche questo punto. Intanto, nella stessa pagina, viene anche retoricamente accostata la GPA agli «effetti deteriori della commercializzazione del sangue e degli organi», e quindi l’autrice si chiede perché tornare a parlare di cose che la legge ha già stabilito, vivendo noi «in paesi dove la materia vivente […] non si compravende, si dona». Peccato che nella sua invettiva di pagina dodici Muraro dimentichi non solo che il dibattito ha molti anni (il libro di Shalev è del 1989) ma anche che anche la GPA può essere intesa come un dono (Murgia), e anche essere regolamentata come tale. Di questo non si parlerà mai in nessuna delle ottantasei pagine di L’anima del corpo. Non posso e non voglio credere che Muraro se ne sia dimenticata; evidentemente, ha scelto di non parlarne. Altrimenti, infatti, non avrebbe potuto argomentare di «un’incoerenza dovuta ai cambiamenti storici» che risale alla schiavitù moderna e alla lotta contro di essa.

Sempre senza alcun riferimento, in questa lotta vengono accomunati Kant, i «gesuiti dell’America latina» e le femministe nordamericane, un terzetto giudicabile almeno un po’ ardito, e che andrebbe spiegato – tenendo conto che il libro non è certo pensato per specialisti dei femminismi o degli studi di genere. Ma nel discorso in prima persona scelto da Muraro non c’è spazio né per questa né per altre spiegazioni, come per esempio su come si può accostare un illuminista, il papa e il femminismo nordamericano; c’è solo spazio per echi del peggiore populismo: «i soldi, oggi, comandano ben più dei ricchi». Fine di pagina tredici.

Come altro chiamare se non populismo l’esprimere che i soldi servono a «istituire una legalità»? La legalità della GPA è già istituita o non istituita o del tutto ignorata dalle leggi di diversi paesi. Non è mai, come si dice poche righe più sotto della stessa pagina quindici, il denaro a dare «una specie di autorizzazione». Ci sono leggi e ci possono essere anche governi locali o nazionali più o meno favorevoli, ma queste illazioni sul mercato lasciamole a politici infervorati dalla propria ignoranza o a complottisti di mestiere. Questo è proprio quell’«uniformare il linguaggio e il pensiero» che Muraro voleva evitare, almeno poche pagine fa. Non si richiede alla «madre surrogata» che «sia rispettosa dell’ordine commerciale», si richiede espressamente la sua volontà anche in quei paesi dove il fenomeno è più soggetto a speculazioni (c’è uno studio della UE in proposito).

La scelta del lessico non è neutra, e la scelta di non essere neutri è più che rispettabile, anzi, su questi argomenti auspicabile: ma non dire le cose come stanno e giocare con le parole è scorretto e tradisce una debolezza degli argomenti che, in Muraro, certo non mi aspettavo. Non è corretto dire di voler cercare «la lettura dell’esperienza» per poi scegliere una retorica intimidatoria («assoldate o, detto più gentilmente, assunte») e passare come certezze delle vere e proprie arbitrarietà («una strada della quale si conosce, per certo, soltanto quella che risulta dalla storia dello schiavismo»). E di nuovo, alla fine del capitolo, pagina diciassette, il populismo in uno dei suoi più celebri travestimenti, la paura del futuro: «noi non stiamo andando da nessuna parte».

È’ difficile continuare a leggere una continua affastellatura di luoghi comuni e toni sempre alludenti, parole mai centrate ma sempre vagamente ammonitrici: «qui non si tratta di proibire, si tratta di non sbagliare». L’immancabile citazione di Sun-tzu (in quest’altro suo libro era molto più azzeccata, e lo era anche il libro) ci porta a un discorso sull’eugenetica, a pagina venti, abbastanza incredibile sia nella ricostruzione che nella conclusione: Muraro parla del genocidio nazista mettendolo come conclusione delle politiche eugenetiche del nordeuropea di inizio Novecento, e già questo è piuttosto ardito, e poi si conclude con: «si doveva sapere da subito che si trattava di una strada da non prendere, contraria com’era all’antica idea cristiana del “siamo figli di un solo Padre”». Ma quella strada l’hanno presa paesi cristiani (Germania, Svezia, Finlandia); e tramite la legge che si sono dati liberamente, nazismo compreso. A parte l’ipocrita esaltazione del “senno di poi”, ma proprio da una femminista della differenza mi devo sentir dire quanto è bello che «siamo figli di un solo Padre»? La conclusione è l’immancabile populismo: «l’idea di istituire un mercato per le creature del corpo femminile fecondo […] non sarà altro che questo, affari e profitto, ovviamente». Peccato che esistano posizioni politiche femministe favorevoli alla GPA e contrarie al mercato – si può fare, si può pensare, se ne può parlare, ma non in questo libro fatto di poco documentati ammonimenti in prima persona.

Gli arbitrii nelle interpretazioni, andando avanti, aumentano. Per giustificare le proprie posizioni le metafore si fanno sempre più improponibili. La pagina 23 si apre con la prepotenza del mercato, «tale che l’uomo più potente degli USA non riesce a fermare un micidiale mercato interno di armi da guerra». Obama è il presidente degli USA, mica il re. Non può fare quello che vuole, deve pur sempre usare i mezzi democratici a disposizione del paese per farlo, ed ecco perché è tanto difficile: non si possono abrogare libertà a casaccio e con qualunque mezzo, le conseguenze potrebbero essere peggiori del male che si vuole combattere. Una riflessione che Muraro, nelle sue proposte, non farà mai. Dov’è il suo «leggere la realtà che cambia» quando formula domande retoriche come «in una cultura che trova odiosa la compravendita di bambine/i, come può essere accettabile commissionare la loro confezione da parte di donne pagate allo scopo»? Qui c’è solo una scelta oculata del lessico.

Il problema non è cosa è «accettabile», ma cosa è legale: la questione GPA ha rilievo internazionale perché attualmente ricade in un groviglio di leggi diverse, di culture diverse, di mercati diversi, e non viene mai posta da Muraro così come realmente si presenta a chi se ne occupa materialmente. Per «leggere la realtà che cambia» servono strumenti politici interculturali e intersezionali che molti femminismi hanno e adoperano, li abbiamo citati prima – Muraro, per ora, non li ha usati, continua a parlare solo del proprio, pretendendo che con qualche artificio retorico la sua riduzione a questioni biologiche possa risultare convincente. Il risultato è invece una violenta difesa di se stessa.

Violenta come quando apostrofa il desiderio genitoriale come sbagliato quando qualcuno/a nasce «in forza del desiderio degli aspiranti genitori, per mezzo dei loro soldi». Se si fosse davvero capaci di un minimo di empatia con quei genitori, si criticherebbe il mezzo, e non il desiderio. Per le diverse pagine di questo capitolo (da ventitré a ventisette) Muraro critica il desiderio e i soldi come se fossero una sola cosa. Sparite le tracce sia della «lettura dell’esperienza» che della «ricerca di argomenti»; c’è solo un indebito parlare per altri, che è sempre una violenza. Come qui: «la paternità tradizionale, infatti, consiste più nel fatto simbolico (il nome) che nell’esperienza vissuta». Dopotutto Muraro si arroga il diritto di parlare per tutte le donne, perché non può farlo anche per tutti gli uomini? L’uomo dà un «contributo materiale, solo biologico» e fine lì. Ancora complimenti alla «lettura dell’esperienza»: quali padri ha ascoltato, letto, valutato, conosciuto per parlare per tutti loro? Non viene detto.

Il bello è che malgrado questa scarsa partecipazione da parte dell’uomo, «non  è arbitrario dire che la coppia genitoriale che si avvale della GPA, ha un’impronta più maschile che femminile». L’uomo è sostanzialmente estraneo alla procreazione, ma è invece il principale protagonista della GPA. Come si tenga insieme questa contraddizione, espressa in dieci righe, non verrà detto. Viene accennato invece, finalmente a pagine ventisette, il vero protagonista maschile di queste pagine: Adinolfi. Sua è la retorica populista del naturale che viene ripresa qui da Muraro («ho usato una parola, “è naturale”, dal significato molto chiaro», come infatti testimoniano decenni di femminismi e studi di genere, vero?); sua è la retorica delle brutte e cattive «centrali del potere costituito», delle «radici naturali» che gli esseri umani non devono perdere, altrimenti per loro ci sarà – indovinate con quale tono finisce il capitolo? – «l’autodistruzione».

Dopo Adinolfi però serve ritirare su il tono filosofico del libro; chi sta scrivendo in prima persona è pur sempre un’ottima filosofa. E quindi, ecco Heidegger; magari un po’ filtrato da Galimberti. «Il problema maggiore che pone la maternità surrogata […] è quello del ruolo che tecnica e mercato giocano nella generazione. […] Tecnica e mercato […] sempre più tendono a diventare dei padroni». Il loro alleato in questo sinistro ruolo, ci viene detto a pagina trenta è il desiderio che insieme a quei due «si crea una dismisura temibile». Il paragrafo è heideggeriano anche nella scelta di un lessico oscuro, ma sempre sui toni apocalittici: aiutare questa dismisura si capovolge nella «morte del desiderio», ossia nella depressione. Anche questa non è una “diagnosi” che andrebbe ben documentata? Di depressione si muore (anche), forse sarebbe più opportuno non diagnosticarla così facilmente.

La seguente pagina e mezza mi è del tutto oscura, devo ammetterlo. Avverto un appello a sforzarsi di discutere e non contrapporsi, per un confronto «non caricato da pregiudizi, presupposti e scelte già fatte, al punto che non c’è più scambio». Difficile da sostenere, dopo che per trenta pagine si è fatto esattamente questo. Prima della solita conclusione in tono lugubre e apocalittico come sempre quando si agita il fantasma heideggeriano della tecnica (stavolta va in scena la fine dell’umanità), Muraro dice questo:

se diamo altro posto ancora alla tecnica e al mercato in ciò che riguarda la riproduzione degli esseri umani, mettiamo a rischio la relazione materna, da una parte, e dall’altra la ricerca di un nuovo e più ricco senso della paternità, che è iniziata con la fine del patriarcato.

Un paragrafo senza capo né piedi. Se il patriarcato è finito, chi è che comanda quella tecnica e quel mercato che fa delle donne delle macchine riproduttrici? Gli alieni? La relazione materna è da sempre a rischio – o vogliamo dimenticare dei milioni di esseri umani vissuti finora sul pianeta con la madre morta di parto, o che quella relazione non l’hanno accettata una volta nato il figlio? La tecnica ha aiutato a far sì che succeda molto meno ora di pochi decenni fa, eppure c’era eccome il patriarcato.

Non c’è modo di tenere insieme decentemente questo ragionamento di Muraro se non credendo ciecamente a tutto quello che dice. Eppure è lei ad aver detto di preferire «la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti». Provasse a chiedere a qualche uomo che lavora contro il sessismo se il patriarcato è finito, esperienza ed argomenti non mancano.

Da pagina trentatré l’esercizio retorico si fa più frenetico ancora. Muraro dice di vedere arrivare la notte, e poi spaccia ancora per buona la definizione di «utero in affitto», ormai insostenibile. Si lancia in paragoni con la prostituzione, altro fenomeno sociale dalla grande complessità anche concettuale che lei banalizza in «asservimento».

Che per lei non esistano tantissimi femminismi è certificato dalla scelta delle citazioni: a pagina trentacinque arriva Nietzsche. Il paragrafo citato da Aurora (è il §552) come esaltazione della gravidanza per la “essenziale realizzazione” s’intitola, Muraro ben si guarda dal dirlo, Egoismo ideale ed è posizionato alla fine di un libro nel quale si gettano le premesse per un nuovo uomo, aiutato dalla tecnica a non avere più paura e ora pronto a liberarsi dalla morale, sopprimendola. È’ questo il momento della “gravidanza”, e a questo si riferisce Nietzsche: supremo egoismo della gestante che non si cura di altro che della gestazione – dell’oltreuomo. La sua metafora sta lì per questo, non ci vuole un grande esegeta per capirlo, basta leggere (per esempio il §473 dello stesso libro di Nietzsche).

Il resto di pagina trentacinque viene attribuito al filosofo, ma è tutto di Muraro, che infatti nella pagina successiva dice che nella «metafora della donna gravida» ci si ritrova. Nessuno lo nega, ma non c’era bisogno d’inventarsi il riferimento nietzscheano per farlo. Ma la strada del capitolo è ancora lunga: servirà anche Woolf e una breve incursione nel romanzo ottocentesco per arrivare alla sua propria definizione della libertà:

la libertà è un godere di essere secondo la misura delle proprie possibilità, quelle che una (o uno) va scoprendo in sé e cerca di realizzare.

In effetti, una definizione di raro egoismo. Non c’è traccia, in questa libertà, del contributo sociale, degli altri. In più, dato che le possibilità che uno va scoprendo sono già in sé, alla nascita, Muraro presenta un’idea essenzialista, per cui tutto è dato alla nascita. Niente apprendimento, niente contesto, niente socialità – un’altra volta. Tutto è già preordinato. E allora certo che se la donna non procrea manca una delle sue prerogative (è, tanto per capire il livello della discussione, anche l’opinione di Veronesi). È una definizione talmente condizionata dal discorso che interessa Muraro da non tenere conto di una ovvietà: gli esseri umani sono talmente liberi anche dalle proprie prerogative naturali da poter scegliere di uccidersi; e non a caso sono ancora le religioni a considerare ciò un peccato grave, mentre nessuna legge occidentale lo considera più un reato. Citare Iris Murdoch contro il rapporto tra scelta è libertà, a pagina trentotto, è l’ennesima scorrettezza, perché il testo citato da Muraro, che lei ha introdotto nell’edizione italiana, è più complesso di come lo presenta lei:

Posso solo scegliere all’interno del mondo che vedo, nel senso morale di “vedere”, che implica che la visione chiara è il risultato dell’immaginazione morale e dello sforzo morale. (…) se si considera il lavoro di attenzione, il suo prodursi incessantemente (…) non si sarà poi sorpresi di constatare che, nei momenti cruciali della scelta, la maggior parte dell’operazione della scelta è già stata assolta. Questo non implica che non siamo liberi, certamente no. Ma implica che l’esercizio della libertà è un compito che viene svolto a piccoli passi e continuamente, non un grandioso saltare qua e là, senza nessun ostacolo, nei momenti importanti (Iris Murdoch, Esistenzialisti e mistici, p.329).

Ecco, questa è una definizione di libertà secondo Murdoch: esercizio svolto a piccoli passi e continuamente, senza niente di deciso fin dalla nascita. Ma questa definizione non sarebbe andata bene per il piano retorico del capitolo, che prevede passi ben precisi. Muraro vorrebbe sganciare l’azione politica della depenalizzazione dell’aborto da qualsiasi somiglianza con l’interesse femminista per la GPA.

Primo passo: l’aborto non è un diritto (pagina trentanove) ma un rimedio; nessuno può imporre a una donna di diventare madre; però la maternità è una esperienza di libertà. Il tutto detto con parole quantomeno discutibili: «che la maternità sia una esperienza di libertà per la donna […] è una misura alta di qualità cui mirare nei rapporti eterosessuali». Con buona pace di chi eterosessuale non è, anche se donna.

Secondo passo: le leggi sono asimmetriche rispetto al genere: «il diritto resta neutro, di fatto maschile». Vero ma Muraro, scusi, il patriarcato non era finito? «Le passate gerarchie stanno sparendo», ah, non sono ancora sparite. Di Nietzsche si parla, ma di Foucault no? Sull’argomento di gerarchie e potere potrebbe essere più illuminante. Tutte queste acrobazie retoriche tentate da Muraro dovrebbero servire a sostenere il punto che più le preme: salvare la differenza sessuale ponendo nella biologia della gestazione e poi nella sua mistica la base ineliminabile della relazione materna.

Ma questo non può succedere: un futuribile oggetto tecnologico come l’utero artificiale non potrebbe eliminare la relazione materna, la quale può darsi da subito dopo la nascita, nello stesso modo l’assenza della madre morta di parto non ha mai determinato l’azzeramento delle capacità relazionali dei figli che storicamente hanno popolato il pianeta e, d’altro canto, i problemi che derivano da questa assenza sono propri anche dei figli che una madre ce l’hanno avuta ed hanno costruito con lei relazioni problematiche.

E non serve neanche, come accade nelle ultime due pagine della prima parte, tirare in ballo La Madre di Dio. Due pagine spese a difendere il racconto della sacra famiglia cattolica dalla supposizione che fosse anche quello un caso di GPA. «Ci sono più forme di famiglia e sono tutte naturali», afferma Muraro e ormai è chiaro perché: all’elemento naturale ci tiene molto. Tanto che per difenderlo spende un paradosso da niente: «non un angelo qualsiasi, ma Gabriele in persona» va da Maria. Un angelo in persona. Più o meno come se avesse scritto “un fantasma in carne e ossa”. E via così, dimenticando – come invece ricordano fior di femminismi – che questo racconto è alla base della tanto patriarcale divisione tra donne sante e donne puttane.

Ma certo, il patriarcato è finito, quindi possiamo tranquillamente ricordare anche di come Maria, fatta diventare dagli uomini del Concilio di Efeso (che Muraro chiama «le autorità», non gli uomini autoritari) a tutti gli effetti Madre di Dio dopo appena quattro secoli, sia caduta nell’oblio totale in quanto donna. Usata e onorata al modo tipicamente patriarcale, è del tutto occultata nei suoi desideri, nella sua vita di donna, nei suoi rapporti col figlio che cresce: concepimento, accettazione, Madre di Dio, e fine lì. Il patriarcato è finito, come no.

La seconda parte del libro La relazione materna comincia con l’ormai abituale mistificazione retorica: nessuno mette in dubbio che la relazione materna sia unica, né che «ha il suo fulcro nel rapporto che si stabilisce nei mesi di gravidanza e con il parto, seguiti da cure affettuose nei primi mesi e anni di vita»; però non esistono studi che provano che sia indispensabile. Non risulta ancora che gli orfani di madre siano biologicamente diversi dagli altri. Quindi non si capisce, malgrado le acrobazie di Muraro, che problemi possano avere bambini e bambine nati da una madre e allevati da un’altra, se non culturali – per esempio, avere intorno persone che prima dicono che «ci sono più forme di famiglia e sono tutte naturali», poi però dividono in mamme di serie A e di serie B, donne di serie A e di serie B.

Non si capisce neanche perché dire palesi falsità, come quella su Nietzsche a pagina quarantesei: non ha mai detto che la creazione della «coppia materna» (?) «non ha i difetti maschili dell’attivismo e del volontarismo», basta andare a leggersi quel paragrafo già citato di Aurora. Quella è Muraro, non Nietzsche – evidentemente il povero Federico ce l’ha nel destino, di essere male interpretato per i propri scopi da una donna.

Poi arriva, sul finire del capitolo, il rumore di unghie sugli specchi: «la nostra legge ammette che la donna, al momento del parto, possa rinunciare alla maternità, ma in quel momento e lei soltanto». Perché non può farlo da prima? E poi anche nella GPA lo fa lei, nessun altro. Se c’è questa possibilità in un momento critico come il parto, perché negarla da prima? E perché, per l’ennesima volta, finire il capitolo con una velata minaccia: «lo dico […] per il nostro bene, che è di restare umani»? Quella esperienza che Muraro dice di voler conoscere è facile da scoprire: la racconta uno stesso genitore grazie alla GPA che è ben consapevole che si tratta di trovare delle regole giuste, proprio per impedire gli sfruttamenti e non vietare nessuna scelta possibile.

È sempre più difficile continuare la lettura, perché dopo cinquanta pagine di forzature non sta più in piedi nulla. La balia che a pagina dodici «integra la relazione materna» con il latte che le arriva non si sa come, a pagina cinquanta è una mamma grazie al latte, e non al grembo. Il grembo che invece è definito «indispensabile» alla pagina successiva. Andrebbe ben documentato lo «smarrimento dell’antico significato popolare» della relazione materna, e andrebbe detto in cosa consisterebbe; esattamente come sarebbe doveroso dare conto di cosa è successo per la relazione materna «nel nuovo tipo di società che ha accompagnato l’inurbamento», e invece tutto viene dato per ovvio, scontato, facilmente verificabile.

È’ sempre più difficile, continuando a leggere, dare credito a una filosofa di professione che proprio su questi argomenti confessa che «non intendo far credere che avrei studiato e misurato queste cose, prova ne sia il mio ragionare fatto di parole comuni». Tanto comuni da diventare, proprio come succede nei luoghi comuni, una generalizzazione ingiustificabile: «la differenza comincia con la relazione materna […] In lui, l’esperienza di quel rapporto è destinata a restare unica ed esclusiva; lei ha in comune con la madre la capacità di generare e potrà un giorno riviverla». Tralasciando la transfobia latente in una presa di posizione del genere, non ha senso riempire un libro di impressioni personali fatte legge: «non so quando, non so come, ma lo sentono, lui il distacco dal corpo materno, lei l’intimità che permane». Moltissime donne raccontano il contrario, moltissimi uomini raccontano il contrario. Perché infine inserire in  quasi ogni pagina del libro la parola «creatura», con un tentativo quasi subliminale di ottenere con la litania del lessico quello che non si può ottenere con la solidità degli argomenti?

Siamo a tre quarti del libro quando tocca leggere, a pagina cinquantasette, che «la competenza materna […] sembra una qualità innata, si può dire che si formi in risposta alla bisognosità». Continua lo sforzo di riduzione al biologico, al materiale, senza remore si accetta anche l’innatismo, ma sottraendo la libertà all’evoluzione e alla bellezza della complessità di relazioni genitoriali scelte e costruite – tutto dev’essere già dato, già preordinato, la libertà che vuole Muraro non può essere autonoma. Ci viene somministrata una citazione di Ferenczi (psicologo freudiano con una madre anaffettiva – cos’è, uno scherzo?) solo per dire che aveva torto in quanto borghese colto; ma a quale classe sociale pensa di appartenere Muraro? Non è certo una colpa, ma allora la sua posizione dovrebbe essere un’altra, distaccandosi di più dal suo maestro Bontadini – altra pesante influenza maschile mai nominata ma molto presente.

Un capitolo intero, La misura dei diritti, è speso per introdurre a forza un nuovo moralismo nel concetto di giustizia, che prende il posto del riferimento al biologico nell’illustrarci un altro dualismo tra corpo generativo femminile e corpo maschile.

È proprio così, il patriarcato lo sa bene, che si gettano le basi per considerare il corpo delle donne a pezzi, come funzioni separate: immaginare una donna solo per il suo utero generativo. Ridurre la differenza sessuale all’utero generativo è, questo sì, un fare il corpo della donna a pezzi. Credo anche io che la differenza sessuale sia importante, ma non credo consista nell’avere un organo o no. I corpi sono già di per sé tutti differenti, e la differenza sessuale porta con sé una differente sensibilità, data dalla capacità di sentire e dalla capacità simbolica che ha tutto il corpo che non è certo data dalla somma di tutti gli organi e i fluidi presenti. Poi ci sono le differenze dovute all’orientamento sessuale, poi quelle dovute a conformazioni genetiche o incidentali, poi le esperienze… verso la meravigliosa differenza di tutti e tutte. Che non verrà mai originata da un solo organo e dalle sue potenziali capacità. Per quanto Muraro possa insistere, «l’impegno relazionale che, durante la gravidanza, si crea spontaneamente con la creatura» non è affatto necessario a una vita felice né alla madre né alla creatura – milioni di esseri umani lo hanno già dimostrato con le loro vite.

Non si può dimostrare alcun «continuum materno» facendo leva su un bieco stereotipo sessista come il padre che, a pagina sessantasei, teneva suo figlio «sulle ginocchia senza altro contatto, non aveva l’istinto di stringerlo a sé». Ma come si permette Muraro non solo di immaginare un istinto che l’uomo non avrebbe, ma di sapere da una occasionale osservazione i suoi modi di (non) essere espresso?

«Quella dello sperma è una continuità impersonale che, senza l’esame di laboratorio, non si saprebbe tra chi e chi passa». Quanta violenza gratuita da leggere, pensando ai tanti padri che conosco che si sono cresciuti i loro figli da soli senza difendersi in logiche da branco e senza scaricare responsabilità su altre. Il «simbolico patriarcale» che lei giustamente dice che ha messo in ombra la relazione materna, lo ha fatto anche con quella paterna, trasformandola in una mera trasmissione di potere. Gli uomini che si sono ribellati a tutto ciò ci sono e ci saranno sempre.

Quel legame di paternità che «si è stabilito con l’aiuto della legge e con il linguaggio di tipo metaforico (il nome del padre)» è proprio quel patriarcato che lei continua a dichiarare, ipocritamente, finito. Contro il quale invece molti padri hanno messo cose ben più solide della legge e del nome, ma non credo che le interessi davvero saperlo, oltre tutta la sua retorica – per fortuna a molte altre femministe sì. «Restituire il suo valore di civiltà all’alleanza madre-figlia» va sicuramente fatto, ma non a scapito delle altre relazioni, altrimenti è solo un altro tipo di violenza.

Non credo, ripeto, che tutto ciò possa interessare chi è capace di sparare, come a pagina sessantanove, che «la proibizione è un principio di civiltà». Le leggi che a Muraro non piacciono sono «tolleranza legale»; i genitori adottivi hanno una «superiorità morale» rispetto ai «genitori che io chiamerei surrogati». I primi, continua sempre più violentemente Muraro, riparano una «discontinuità nella relazione […] essi meritano di chiamarsi madre e padre», e chissenefrega della «creaturina» e di chi vivrà con lei.

Questa bassa retorica, ipocrita da parte di chi ha premesso di preferire «la lettura dell’esperienza» e «la ricerca di argomenti» (stiamo ancora aspettando entrambi, a pagina settantuno; per ora ci sono state solo opinioni di Muraro fondate sulla sua sola parola) serve a mascherare che tutto ciò che viene elogiato nei genitori adottivi accade anche nei genitori che ricorrono alla GPA – a parte quell’essenzialismo dualista schiettamente patriarcale che per Muraro è importante conservare, e che serve quando c’è da chiarire «quello che c’è stato prima».

Arrivati questo punto del libro c’è bisogno di tanta fantasia per seguire Muraro nelle sue acrobazie. Perché senza uno straccio di riferimento, stare sempre a ricordare la filosofia, come fa per tre pagine intere, è una specie di monologo inaccettabile. «Secondo una certa filosofia, il luogo delle origini sarebbe vuoto»; quale filosofia? Quale luogo? Non è dato saperlo. «La creatura che, ignara delle manovre della surrogazione, ha collaborato a ricostituire la figura materna, quando verrà a sapere o sospettare, capirà? Perdonerà?»; e chi può dirlo, Muraro? Nessuno, a parte l’esperienza e la verità soggettiva della creatura, non certo la sua. Potrebbe anche esserne grata, per quello che ne sappiamo senza aver vissuto la sua vita, che invece ci stiamo permettendo di giudicare, insieme a quella dei suoi genitori.

La GPA «minaccia doppiamente la relazione materna», perché la interrompe «senza necessità» e spezza il continuum materno. Per Muraro non esistono relazioni materne se non quelle del continuum biologico, ed è una falsità esperienziale testimoniata – diciamolo ancora una volta – da milioni di persone nate orfane che hanno avuto la loro relazione materna sana e tranquilla (o complicata e dannosa) con chiunque altro/a hanno voluto costruirla; e da ancora più milioni di persone nate da naturali genitori eterosessuali che hanno avuto una relazione materna di merda, che gli ha rovinato la vita.

Ipocrisia finale del capitolo, «la madre è sostituibile ma non lo è la relazione materna, questa è la mia tesi», e sono due falsità: in primo luogo la madre come gestante non è ovviamente sostituibile finché gli esseri umani non nasceranno da macchine; in secondo luogo se Muraro ammettesse davvero la sostituibilità della madre, come finge di fare per le adozioni e grazie al lavoro della «creaturina», allora tutta l’importanza data all’elemento biologico e naturale per salvare la “sua” relazione materna non le servirebbe affatto. E smetterebbe di vedere la possibilità di una GPA come un pericolo per la sua filosofia. Perché la relazione materna consiste in una relazione costruita faticosamente, lentamente e amorosamente da una persona con un* figli* sia ess* nat* biologicamente da questa persona oppure sia stato concepito da altr* o, financo, da una macchina.

Arriviamo al gran finale. «Sono consapevole di non aver dato la giusta attenzione alla relazione paterna e ala figura del padre». A pagina settantasette, su ottantasei, mi pare un po’ tardi. «Non mi mancano notizie né interesse né motivazioni. Mi manca però, su questo versante della questione, la verità soggettiva: non l’ho trovata finora dialogando con uomini. Forse non l’ho cercata bene». Forse, Muraro? Lo ha detto lei, settantadue pagine fa, che «con donne mi confronto di preferenza».

I risultati si vedono nel metodo: le parole di Tellenbach usate da lei dipingono un modo interessante di unire natura e cultura in modo che non si ripropongano dualismi – uno dei tanti che la storia della filosofia ha prodotto – ma il fatto che «il momento più alto del processo consiste nell’imparare a parlare» è di Muraro, e non di Tellenbach. Di Muraro è anche l’idea che i neonati «si esercitano regolandosi sulla voce materna […] a una condizione, che l’oggetto d’amore sia presente e faccia lo stesso gioco». Muraro scrive «voce materna», non voce della madre. Qualunque voce può essere quella materna, l’importante è che sia lì come «oggetto d’amore». Non ci risulta neanche che i nati da GPA e affidati a coppie di uomini omosessuali siano cresciuti muti. A sentire Muraro, non sarebbe stato possibile.

Com’è buffo leggere dello stupore che Muraro ha nel constatare che a Jakobson, Kristeva e Rasy «non consta» l’esistenza di un «simbolico comune che insegna a parlare» prima del simbolico patriarcale. Forse a loro «non consta» perché, sa grandi linguisti quali sono, non possono ammettere strutture comuni all’origine del linguaggio, perché altrimenti ne perderemmo la più meravigliosa sua caratteristica: l’arbitrarietà dei significanti e dei significati. Che Muraro non conosca il lavoro di De Saussure non lo trovo credibile; che non le convenga seguirlo contro qualsiasi innatismo linguistico, mi pare molto più plausibile. Il che spiegherebbe anche la curiosa scelta di Tellenbach per darsi un precedente tra ambito naturale e culturale, quando già molta fenomenologia francese ha studiato a fondo la comunicazione preverbale; ma quest’ultima filosofia porterebbe dritto ad autori e tesi che qui, per scelta di comodo, non sono da nominare.

L’ultimo capitolo chiude ogni speranza di confronto possibile: a «la verità soggettiva […] di noi, umanità in buona fede» (pagina ottantatré), «si arriva con la lingua materna». E chi non la pensa così, “gli altri”, sono tutti in cattiva fede, con buona pace della volontà di confrontarsi. Tornano quindi, in chiusura di libro, i fantasmi paurosi: la «tecno-scienza» che ci illude che più possibilità siano più libertà, «perfino il diritto […] è diventato una macchina». Altra ipocrisia: il diritto non esiste, esistono diversi “diritti” e numerose leggi e ordinamenti a volte incompatibili e incomparabili tra loro, e che se hanno una caratteristica in comune è proprio quella di non essere affatto efficienti come macchine, dovendosi adattare a fatica ai numerosi e veloci cambiamenti sociali. «Cerchiamo, è il mio invito, la risposta nella direzione di accrescere la competenza simbolica così da imparare a discernere, nell’area del possibile, tra il disponibile e quello che tale non è». Non serve affatto tale competenza una volta che si vuole imporre di ragionare «senza separazione tra il biologico e l’esistenziale», schiacciando il secondo sul primo, sulla genealogia femminile naturale e uterina. Così, com’è stato per tutto il libro, non c’è alcuna discussione possibile: o si fa come dice Muraro, o non si è «umanità in buona fede».

Sono formule retoriche delle quali non si ha alcun bisogno. Di barriere simboliche siamo ancora pieni grazie a quel patriarcato che tanti e tante, oltre Muraro, si affannano a dichiarare finito pur di dimostrare le proprie tesi. Per fortuna esistono altri femminismi che non hanno bisogno di mistificare la realtà e non sono meno ricchi simbolicamente e di esperienze vissute.

Cosa ne penso

Io credo che un libro del genere dica molto su chi l’ha scritto, e non sulla GPA. Lascia un senso di disperazione: è il disperato tentativo di far valere il dato biologico come qualcosa dotato di significato di per sé. Il significato, però, non è mai naturale – la natura non usa alcun significato. Non si può tenere insieme le due cose: o il dato biologico è assoluto e definitivo togliendo così la possibilità di crearci sopra un simbolico, oppure il simbolico è libero, potente e svincolato dal dato biologico che non può pretendere nessuna supremazia originaria.

Non ha alcun senso creare un femminismo che non ha nulla da dire per esempio su omo e transessualità, perché non può concepirla, schiacciato com’è sul dualismo eterosessuale al quale ha scelto di chiudersi. Non ha alcun senso trattare la GPA, un tema evidentemente genitoriale e che mette in crisi i fondamenti dell’eterosessualità come sistema di potere, ancora con le armi dell’opposizione al maschile che vuole essere determinante, sostenendo al contempo che il patriarcato è finito.

Non ha alcun senso sostenere che non si riesce a sentire la voce degli uomini, la loro verità soggettiva: allora sarebbe il caso di cambiare interlocutori, o di cercarli. Se il patriarcato è finito, allora gli interlocutori ci dovrebbero essere; forse non si è fatto nulla per cercare un terreno comune di discussione. La mia verità soggettiva di uomo antisessista (e che nella lingua inglese si definirebbe feminist, ma in italiano non può dirsi femminista perché “storicamente” qualcuno si è appropriato di questa parola) è che il patriarcato è vivo e vegeto e si è trasformato in tanti micropoteri patriarcali che fanno ancora male al mio corpo e alla mia capacità simbolica. Quando qualcuno mi esclude dal discorso sulla GPA in quanto maschio, io credo che stia facendo il lavoro del patriarcato; se sempre costui sostiene che il patriarcato è finito, la mia reazione è il totale rifiuto verso questo qualcuno. Non abbiamo, semplicemente, niente da dirci.

Sono padre, marito, figlio. Relazioni che mi definiscono, che non hanno nulla di innato, che ho dovuto sottrarre al patriarcato vigente per riscoprirle nella loro piena umanità di relazioni. Non permetto a nessuno né a nessuna di sindacare la loro natura non biologica, tentando di definirmi al di fuori dei condizionamenti che ho faticosamente riconosciuto, per mettermi alla berlina dei suoi condizionamenti. Questo è patriarcato, e  ormai lo riconosco da parecchio lontano.

La difesa di un biologismo discriminante, intessuto di retaggi religiosi, non serve neanche per ammonire contro un mercato, contro una tratta di esseri umani. Gli strumenti sono altri, e tanti femminismi lo hanno dimostrato già da anni. La prima GPA è di trent’anni fa. Nel 1986 probabilmente Muraro stava lavorando su quello che un anno dopo uscirà nel libro di Diotima Il pensiero della differenza sessuale. Trent’anni fa le era già impossibile capire quello che stava accadendo. Nel 1986 Judith Butler, sulla rivista “Yale French Studies”, scrive un articolo intitolato Variations on Sex and Gender: Beauvoir’s The Second Sex; Sandra Harding pubblica The Science Question in Feminism. Chi delle tre filosofe avrebbe reso il mondo più comprensibile per Shira, nata nel 1986 da quella prima GPA ufficiale, mi pare evidente.

Per fortuna di Shira e di molti e molte altre, la relazione materna non è una sola, il mondo ne ha già viste tantissime. Una donna può volere una gestazione ma non la relazione materna, può non sentire il figlio che ha in grembo come “l’altro” da scoprire, amare, accudire, educare ma come un altro che mina la sua libertà, che va rifiutato perché è una responsabilità inaccettabile, un peso. Oppure vuole provare a se stessa che il suo corpo è in grado di fare figli, quindi o abortisce oppure dona o dà a pagamento il figlio a qualcun altro senza doversi vivere il dolore della sua morte. La tratta e il mercato cercano di approfittare di queste situazioni ancora difficili da gestire socialmente, come sempre è successo per tanti altri casi. Pensare di poter risolvere tutto ciò col biologismo religioso in nome di una relazione materna discriminante pure tra le donne stesse è solo il sintomo della totale inadeguatezza di chi lo pensa.

Io «la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti» le faccio nell’unico modo possibile per me: senza pensare di avere già la soluzione all’esperienza altrui e la confutazione degli argomenti altrui. Questo lo fa il patriarcato, e qualunque altra forma di potere coercitivo.